LE PAROLE DI SATURNO— da ‘Ribelli’ , di D.Guarino e C.Brilli

16 Dicembre 2013 Lascia un commento »

L’intervista integrale a Giuliano Martelli,

per ricordare un  grande uomo e  un grande partigiano

 

 

Martelli Giuliano,

nato a Firenze il 1 giugno 1926

partigiano della Brigata Sinigaglia

nome di battaglia

Saturno

Perché ho scelto di diventare un partigiano? Semplice: l’ho fatto perché non condividevo il sistema totalitario del fascismo. Così, quando mi sono trovato di fronte alla necessità di decidere da che parte stare,, non ho avuto dubbi.

In montagna ci sono arrivato intorno al 20 di maggio del 1944, associato alla brigata Sinigaglia.

Vi ho passato quattro mesi e lì – si dice – “ho dato alla Resistenza”.

Ma forse è proprio la Resistenza che ha dato qualcosa a me. Ho vissuto quei mesi insieme, veramente, a dei fratelli.

Si parla tanto di solidarietà ma la solidarietà che ho trovato in montagna,credo che non la ritroverò mai più.

Se proprio devo indicare un momento in cui nacque la mia avversione nei confronti del fascismo, questo fu un episodio apparentemente abbastanza secondario ma che racconta il clima in cui si era costretti a vivere in quegli anni. Un clima di violenza e di sopraffazione che non risparmiava nessuno e che il fascismo utilizzava al fine di reprimere anche la minima forma di dissenso.

Vedete, la mia era una famiglia modesta, che andava avanti onestamente, senza agi e sempre stando attenti al denaro, perché non c’era da scialare. Così, quando mio fratello andò militare, nel 1937, siccome mio padre che faceva il muratore si trovava già in pensione in quanto era diventato oramai quasi cieco, a me, che avevo all’epoca solo undici anni, toccò di andare a lavorare per contribuire al bilancio domestico.

Tutti i sodi che guadagnavo li davo alla mia famiglia. Poi, per avere qualcosa in più, lavoravo anche il sabato e qualche volta addirittura la domenica. Lavorando, non andavo alle adunate degli avanguardisti, e così una sera, avevo 14 anni allora, mi hanno aspettato in cinque, davanti a casa in via dell’Arcolaio, e me le hanno suonate di santa ragione.

Mi ricordo che questo fatto mi aveva lasciato dentro una grande di rabbia, non tanto e non solo per le botte prese, quanto per quel sentimento di angoscia che proveniva dalla convinzione di aver subito una profonda ingiustizia e di essere stato vittima di un attacco vigliacco oltre che gratuito. E poi quella bruttissima sensazione di impotenza che nasceva dalla impossibilità di ribellarsi a tutto ciò che rendeva possibile una violenza del genere.

Anche questo ha contribuito alla scelta che poi feci di andare in montagna, cosa che accadde in effetti solo qualche anno dopo.

Quando?

Nel 1943, per evitare di essere spedito al fronte, mi presentai alla TODT, offrendomi di lavorare direttamente presso il genio militare tedesco.

Naturalmente l’intenzione era quella di rimanere in città, anche per non allontanarmi dalla famiglia. Invece, dopo qualche settimana ci caricarono tutti su un camion senza darci una spiegazione precisa. Ci bastò poco per capire che ci avrebbero portato via, verso la Germania ed i campi di concentramento.

Allora, durante il viaggio, senza farci sentire, io e mio cognato, che si trovava con me, ci accordammo con due altri ragazzi di Grassina ed insieme a loro decidemmo di tentare la fuga. L’occasione si presentò dopo qualche chilometro di strada quando, per un motivo che non conosco la colonna si fermò. Fu un attimo: ci guardammo negli occhi, un balzo, e ce la demmo a gambe levate.

Tornammo a Firenze a piedi. E qui viene il bello.

Perché, qualche giorno dopo, al cinema Fiorella, incrociai un ragazzo col quale avevo fatto le scuole elementari. Era un mio amico allora, solo che col tempo era diventato un sostenitore del regime, ed infatti girava agghindato come un vero riservista delle camice nere: uccellone d’ordinanza, pistola, pugnale.

Fatto sta che mi chiese cosa ci facessi lì, io gli dissi che ero stato preso alla Todt, ma che per l’appunto mi trovavo in permesso straordinario. Naturalmente lui non ci cascò, mi intimò di andare subito in caserma e mi accusò di essermi imboscato. Al mio diniego, mi tirò uno schiaffo. Non ci vidi più: gli saltai addosso e ci tirammo un paio di cazzotti. Poi ci divisero. Il ricordo di quello che mi era capitato qualche tempo prima aveva fatto la sua parte: solo che questa volta avevo avuto la forza di ribellarmi.

Naturalmente però lui non l’aveva presa bene e alla fine mi puntò il dito contro esclamndo: “domani ti mando i tedeschi a casa”. C’era da credergli!

A quel punto non avevo più scampo, bisognava che mi dessi alla macchia.

Decisi di andare in montagna con mio cognato. Suo genero, che faceva il fruttivendolo, ci caricò su un carrettino, ci coprì con delle casse di verdura per evitare che ci scoprissero, e ci portò a Poggio La Croce. Lì c’era la staffetta che ci condusse a destinazione.

Qual fu la prima impressione che ebbe della Brigata?

Beh, posso dire che fu un impatto molto forte, perché io mi immaginavo di trovare venti-trenta persone, non di più. Ed invece c’era un mare di gente. Ci dissero che quella era chiamata la brigata Sinigaglia .

Mi ricorso che c’era sin da subito un clima di grande amicizia, anche perché la maggior parte erano giovani della nostra età o poco più grandi di noi.

Poi di lì a poco furono formate le compagnie e ci divisero in gruppi.

A noi toccò di rimanere in difesa della postazione. In poco tempo diventammo in pratica come dei fratelli. Gli uni accanto agli altri, nelle difficoltà più nere, scambiandoci qual poco che c’era.

Esattamente quali erano i vostri compiti?

Principalmente si trattava di organizzare e di realizzare delle azioni di sabotaggio. Dall’accampamento in cui ci trovavamo, la notte partivano le pattuglie che avevano il compito di minare i tralicci, le linee ferroviarie o altri obiettivi strategici. La mia consegna in particolare era però quella di rimanere a difesa della postazione, per cui raramente prendevo parte alle azioni.

Poi c’era da organizzare il vettovagliamento, trovare gli alimenti e tutto quanto serviva per sopravvivere in montagna. Per fare questo avevamo messo in piedi una rete di contatti le fattorie della zona che via via ci rifornivano di viveri o altro, compatibilmente con le loro disponibilità che, naturalmente, erano esse stesse abbastanza scarse.

Oltretutto, non di rado, capitava che fossero a loro volta oggetto di razzie da parte dei tedeschi e dunque capitava ce rimanessimo con le mani in mano.

Funzionava così e tu non ci potevi fare niente, anche perché era impossibile da prevedere. Poi i collegamenti erano quelli che erano e, per evitare i rastrellamenti, dovevamo usare la massima accortezza negli spostamenti, per cui era tutto dannatamente complicato.

Mi ricordo in particolare un volta che eravamo veramente affamati (da giorni si mangiava pochissimo) e a da una delle fattorie con cui eravamo in contatto ci vennero ad avvertire che avevano della farina da darci. Naturalmente non appena ne avemmo l’opportunità ci precipitammo, solocce, quando arrivammo sul posto ci dissero che la notte prima c’erano stati i tedeschi ed avevano portato via tutto. Immaginatevi la delusione!

Comunque alla fine ci dettero un fiasco di vino, una forma di formaggio ed una pagnotta. Per farvi capire come funzionava in montagna, vi racconto questo: noi della pattuglia avevamo una fame da lupi e quello che avevamo di fronte era davvero poca roba; per cui, considerato tutto, ce la saremmo mangiata volentieri da soli. Lo proponemmo a Gianni, il capogruppo, e lui ci rispose con queste poche , lapidarie parole: “questo si porta al campo, senza discussioni e chi lo tocca farà i conti con me”.

Così portammo il vino, il formaggio e la pagnotta su al campo e lo dividemmo con tutti quelli della compagnia comando. Ne venne fuori un pezzettino per ciascuno. Tanto piccolocce alla fine nessuno ebbe modo di sfamarsi sul serio. Però tutti avevano avuto la loro parte nessuno escluso. Questa era la lezione di Gianni: la solidarietà e la condivisione venivano prima di tutto.

Un altro episodio che è rimasto impresso in maniera indelebile nella mia memoria risale ai giorni successivi alla battaglia di Pian D’Albero, quando, a seguito dell’attacco dei nazifascismi, fummo costretti a spostarci. In tre giorni e tre notti di cammino praticamente ininterrotto ci toccarono non più di diciassette ciliege a testa. Camminammo per decine e decine di chilometri, con addosso la fame, la sete, la stanchezza e la paura.

Dopo l’attacco e le perdite subite nello scontro di Pian D’Albero cosa successe alla vostra brigata?

Successe che ci dividemmo in varie squadre. Io ed altri trovammo riparo presso il podere Monte Moggio nel comune di Greve in Chianti. Il 20 luglio però, anche quella postazione venne attaccata per cui tutta la mia compagnia e anche le altre si spostarono presso località Fonte Santa.

Noi arrivammo un po’ dopo perché eravamo rimasti a reggere la postazione a Monte Moggio dove, anche lì, i fascisti ed i tedeschi avevano inscenato un attacco estremamente veemente e drammatico.

Vedete, nelle nostre azioni anche noi abbiamo giustiziato qualcuno, non lo nego, ma quello che abbiamo visto fare a Monte Moggio fu veramente atroce. In quella casa di contadini, furono uccisi due compagni: uno lo abbiamo trovato con i genitali in bocca, un altro con gli occhi in una mano.

Questo cose noi non le abbiamo mai fatte.

Cosa significava per lei sparare, rischiare di essere colpito, uccidere?

Per prima cosa voglio dire che io non ho preso parte a moltissimi scontri. Quando è capitato ho fatto lamia parte, certo. Però riassicuro che non sparavo tanto per uccidere quanto per difendermi e difendere i miei compagni.

Mi ricordo che quando siamo scesi giù a Firenze, l’incubo vero era quello dei primi franchi tiratori. Fascisti irriducibili, per lo più giovanissimi, indottrinati ed esaltati dai gerarchi, che non avevano intenzione di darsi per vinti, e nonostante sapessero di aver oramai perso il controllo della città, continuarono per giorni a sparare su di noi e, quel che è più grave, anche sulla popolazione civile, colpevole, ai loro occhi,di alto tradimento per non aver combattuto al loro fianco.

I primi li abbiamo trovati in piazza Gavinana. Fu lì che uno di loro cominciò a prenderci di mira, un colpo dopo l’altro.

Noi procedevamo tutti in fila, allora il comandante Gracco mi disse di attraversare la strada e di fare fuoco. Non sapevo a chi, ma sparavo in su, per fare passare gli altri. Alla fine alcuni di noi riuscirono ad entrare nella casa dove erano appostati i cecchini e ne ammazzarono uno che stava scendendo dal lucernario.

Sparare voleva dire sopravvivere, ma io non l’ho fatto mai per piacere, o per pura violenza.

Io non amavo la guerra, solo che in quel momento per noi giovani in età di leva c’erano tre possibilità: arruolarti nell’esercito della Repubblica Sociale, essere deportati nei campi di concentramento, oppure andare in montagna. Io andai in montagna.

Perché?

Perché non avevo mai condiviso i valori del fascismo. Da ragazzi certo non avevamo la possibilità di formarci una cultura politica alternativa a quella che il regime ci forniva attraverso un’educazione basata su motti del tipo “libri e moschetto fascista perfetto”. Quello che ci facevano studiare, le attività cui venivamo chiamati a partecipare, avevano il compito di formare non dei cittadini ma quei soldati che sarebbero andati a combattere le guerre da cui l’Italia avrebbe ricavato quell’impero che, ci dicevano, le spettava per motivi innanzitutto storici.

Io venivo da una famiglia di antifascisti e la sera, spesso, ci ritrovavamo con le altre famiglie al fresco, e allora si parlava un po’di politica. Ovviamente senza scoprirsi troppo perché c’era sempre il rischio delle soffiate e dunque di essere perseguitati per attività antifascista. Questo era il clima in cui si viveva…

Però, quei pochi discorsi, quelle mezze frasi, quelle allusioni: da ragazzo ti entra nelle orecchie, ti fanno riflettere, anche se non arrivavi a capire fino in fondo.

Mi ricordo che quando finì la guerra d’Abissinia a scuola non ci parlavano d’altro che di questo benedetto Impero che l’Italia aveva conquistato, di quanto era importante, del prestigio e della ricchezza che ci avrebbe portato, anche agli occhi del mondo. Allora io tornai a casa estasiato da tutto quello che avevo sentito e dissi a mio padre: “Babbo, e ci s’ha anche l’Impero ora!”. E mi ricordo che mio padre, calmo, mi rispose: “Stai attento! E’ sempre un popolo andato a soggiogare un altro popolo”.

Queste furono le sue parole: secche, precise. Non lasciavano scampo.

Queste cose, anche se sei un ragazzino, ti fanno riflettere.

Poi, a 14 anni, mi capitò l’episodio che vi raccontavo all’inizio, quando quel gruppo di avanguardisti mi solo perché non avevo il tempo per frequentare le adunate fasciste. Da quel momento non ebbi dubbi sulla direzione da prendere.

Per me insomma, la scelta tra Salò, i nazi-fascisti, e la montagna dei partigiani, fu molto facile. Scontata direi.

Cos’ha significato per lei la Resistenza?

Un sacco di cose. La Resistenza ci ha dato tanto. Ci ha formato come uomini, politicamente e socialmente.

Ha creato un sentimento di fratellanza che poi ha fatto parte delle nostre vite successive. Non potete immaginare quello che c’era tra noi.

Condividevamo tutto. Uno dei momenti più belli era quando le staffette ci recapitavano i pacchi con quei pochi beni di conforto o viveri che i nostri genitori riuscivano a spedirci dalla città. Si metteva in comune ogni cosa. Le sigarette, innanzitutto, che erano una specie di lusso perché non era difficilissimo procurarsele.

Allora, quando capitava, ci si metteva i cerchio in gruppi di 4 o 5, si prendeva la sigaretta e si faceva “un peo”, un tiro, per ciascuno. Quel gesto voleva dire tante cose insieme. solidarietà, fratellanza, amicizia.

Queste esperienze mi hanno formato, mi hanno fatto uomo. Tenete conto che avevo appena compiuto diciassette anni: ero poco più che un giovinetto. Sono andato alla macchia ragazzo e sono tornato uomo.

Poi ho ripreso il mio lavoro in ditta. Sempre la stessa: ci ero entrato il 19 dicembre 1937 e sono andato avanti fino alla pensione, alla fine d’aprile del 1985, dopo quasi cinquant’anni di lavoro. In pratica, una vita

Quando eravate alla macchia, in postazione, avevate la coscienza di quello che stavate facendo? E quali erano i vostri obiettivi?

Certo, noi volevamo innanzitutto arrivare a Firenze, la nostra città, e liberarla. Ma non solo. A noi quello non ci bastava. La nostra intenzione era quella di lottare per creare una società diversa, un’altra società, un altro sistema di vita, con più giustizia.

Noi pensavamo di realizzare finalmente un qualcosa che era mancato fino a quel momento. C’era questo dentro di noi. Quindi volevamo arrivare giù il più presto possibile. E poi proseguire nella lotta politica perché quel tipo di società che avevamo sperimentato in montagna, da partigiani, basata su quei valori di giustizia,solidarietà, fratellanza, cui accennavo, potesse realizzarsi anche nel nostro paese.

Una società in cui tutti avessero di che vivere, e ciascuno si prendesse cura degli altri. Tutto quello che facevamo in montagna, compreso il cercare qualcosa da mangiare, veniva animato proprio dalla volontà di aiutarci tra di noi e con tutti gli altri.

La volontà di realizzare la libertà in assoluto: quello era il nostro intento.

Si lottava per quello. Tutti noi. E tutti volevamo costruire uno stato migliore.

E alla fine ce l’abbiamo fatta: la libertà per il nostro paese l’abbiamo raggiunta.

Certo non nella maniera in cui ci saremmo aspettati che avvenisse.

Cioè?

Beh, non siamo mica contenti di come ci si trova oggi… Però un po’ di libertà l’abbiamo portata. E io penso che si sia dato un grosso contributo alla realizzazione della nostra Carta Costituzionale, quel capolavoro ideale che oggi ci invidiano un po’ tutti.

Quella è nata con la Resistenza e si è basata sugli ideali nostri, dei Partigiani.

In occasione di un recente convegno sulle Brigate Garibaldine svoltosi a Firenze ho avuto modo di conoscere un professore americano che stava studiando proprio i giornali dell’epoca. Lui mi raccontò che, quando fu varata la Costituzione, negli stessi Stati Uniti molti la ritennero subito la migliore mai promulgata. Fa un po’ impressione pensare che quella Carta l’abbiamo fatto noi, con la nostra lotta.

Oggi sappiamo che s’è vinto una battaglia: importante, per alcuni versi fondamentale, ma non basta. Bisogna continuare per vincere la guerra, e questo spetta soprattutto ai giovani.

Dopo la Liberazione sembrava che il fascismo fosse stato sconfitto unna volta per tutte. Lei ha mai provato la sensazione di essere tornato indietro? E quando?

Varie volte nel passato anche recente. E sicuramente oggi più che mai: trovarsi dopo 60 anni con gli stessi fascisti al governo non è una bella cosa per chi li ha combattuti a rischio della propria vita e credeva riaverli sconfitti per sempre.

Certo, ora i fascisti si vestono in maniera diversa, magari in doppiopetto. Ma le loro dee di sopraffazione e di violenza sono sempre le stesse, consono cambiati.

Questo è qualcosa che mi fa stare male.

Ora mi vedi vecchio e rimbambito, ma a vent’anni, come si dice noi “avevo poco sonno davvero”. Se vedevo un’ingiustizia il mio istinto era quella di combatterla, di ribellarmi. Qualche volta mi succede anche ora.

Questo non è certo lo Stato che si voleva noi. E il bello è che se ne approfittano pure. C’è un insieme di cose che non condivido, così tante che sarebbe impossibile anche solo elencarle. Meno male abbiamo ancora un presidente della Repubblica che regge.

Però questo fatto che ci sia uno solo che comanda…Mi sa che piano piano si finisce un’altra volta nella dittatura, invece che nella democrazia.

Questo mi fa stare male. Non solo per me, che sono alla fine, ma per i miei figli, i nipoti. I giovani di oggi non hanno prospettive, non hanno un avvenire. E spesso nemmeno la speranza di averlo. Ma se non ci pensa lo Stato chi è che ci deve pensare? E’ questo che mi rimane sullo stomaco!

La nostra Repubblica è fondata sul lavoro? Allora, mi chiedo, le vogliamo creare le condizioni per dare lavoro a questa gente oppure no?

Non vengono create? Allora vuol dire che questo Stato non è uno Stato democratico! O per lo meno, non è una democrazia condivisibile.

Io credo che se tutte le forze antifasciste collaborassero insieme per creare un Stato migliore, la strada ci potrebbe essere, e allora la nostra democrazia, quella che sognavamo in montagna e che è scritta nella nostra Carta Costituzionale, potrebbe anche essere realizzata a pieno.

Mi permetto di dire anche un’altra cosa, perché pure quella sta scritta nella Costituzione: nel mondo si parla tanto di Pace, allora visto che ci sono tante fabbriche di armi – è una delle industrie più redditizie- perché non chiediamo che sano riconvertite in luoghi di lavoro, anche per aiutare quei paesi del cosiddetto terzo mondo che bombardiamo con il miraggio di migliorare le loro condizioni di vita?

Mi fanno ridere: parlano di pace, di esportare la democrazia, ma chi fa le armi, le deve vendere, e per venderle ci vogliono le guerre. Questo è il problema.

Il problema è che non ci può essere pace finché le industrie delle armi saranno floride come adesso.

Non ci vuole molto per capire che se tutto quello che spendono gli Stati per le armi fosse destinato alla creazione di strumenti per far nascere occasioni di lavoro, per lottare contro le ingiustizie che ci sono nel mondo, ci sarebbero maggiori possibilità di una vita dignitosa non solo per noi, ma soprattutto per voi e per le generazioni future.

Voi, con la vostra lotta, poco più che maggiorenni, avete creato le condizioni per uno Stato democratico. Ai giovani di oggi tocca difendere quelle conquiste che appaiono messe in discussione. Come possono farlo? Con quali armi? E con quale speranza di successo?

Innanzitutto con quell’arma micidiale che noi abbiamo consegnato a tutti i cittadini di questo stato, comprese le donne. Parlo della possibilità di votare, di esprimere la propria preferenze. E’vero che gli spazi di democrazia in questo paese si stanno restringendo ogni giorno di più, ma il voto ancora rimane. E allora va sfruttato al massimo, proprio perché è una di quelle poche cose che ancora non sono state messe in discussione.

C’è ancora una possibilità di scegliere, per fortuna, vediamo di utilizzarla nel miglior modo possibile.

Poi, certo, se quelli cui abbiamo dato il nostro voto non fanno il loro dovere, allora bisogna stargli addosso. Perché il voto è l’inizio non la fine della pratica democratica. La nostra Costituzione sancisce che la sovranità è del popolo. Che chi governa deve sempre rispondere alla volontà popolare.

Quando questo non accade bisogna che qualcuno gliene chieda conto.

Torniamo al momento in cui eravate nel bosco. Ha detto di aver incontrato una società ‘ideale’, fatta di fratellanza, solidarietà, eguaglianza. Non ha mai pensato che fosse solo il frutto della situazione particolarissima in cui vi trovavate, e che dunque sia impossibile replicarla in condizioni di normalità?

Lo ripeto: la solidarietà che ho trovato in montagna non mi era mai capitato di viverla. Mai. Nemmeno a scuola o sul lavoro.

Lì ci sentivamo davvero tutti fratelli ed uguali, pur nella diversità, anche di nazionalità: con noi infatti c’erano anche russi, americani, canadesi. Senza contare che non tutti avevamo il medesimo orientamento politico o religioso. Però avevamo lo stesso obiettivo che era quello di creare una società in cui tutti potessero stare meglio.

Ripeto: la nostra idea politica era essenzialmente di realizzare quello che avevamo provato in montagna, la condivisione dei beni comuni, così da dare a ciascuno in ragione del proprio bisogno. Ciò voleva dire anche saper accontentarsi, perché per uno che ha troppo c’è sempre qualcuno che ha poco o niente.

E poi la grande lezione dell’essere al servizio degli altri, soprattutto se si rivestivano ruoli di grande responsabilità. Non a caso, quando dividevamo il pane, il nostro comandante – Gracco – lo prendeva per ultimo!

I sacrifici che abbiamo fatto in montagna sono inimmaginabili, questo contribuiva a creare una situazione assolutamente peculiare. Impossibile da riproporre? Non lo so.

Certo poi le cose sono andate in maniera diversa da come le avevamo immaginate.

A Firenze, quando venne eletto Mario Fabiani, il primo sindaco dopo la Liberazione, speravamo che mettesse in pratica le cose che avevamo teorizzato. E noi eravamo fiduciosi che lo facesse. Ci credevamo. Invece…

Piano piano il capitalismo, anche quello più bieco, è ritornato a galla, è ricomparso lo sfruttamento, le divisioni.

Non era quello per cui avevamo lottato. Ciascuno cominciò a pensare al proprio. I proprietari delle officine più al profitto personale che non al bene degli operai.

Vedete, io ho fatto il capofabbrica e qualche volta con gli operai sono stato duro (credo a ragione, per evitare problemi peggiori). Però li ho difesi anche tanto.

Noi che avevamo vissuto negli ideali della resistenza, della fratellanza, della solidarietà, che cosa abbiamo provato? Dentro di me ho sempre sentito molto forte il valore della giustizia. Che se non potevamo avere tutti le stesse cose, almeno ci fosse un equilibrio, una giustizia nella ripartizione della ricchezza.

Conciliare queste cose non è impossibile, se si volesse si potrebbe realizzare anche subito, senza particolari difficoltà.

Vi racconto questo episodio. Un Natale andai in ufficio per fare gli auguri e prendere il panettone e la bottiglia che di solito il principale ci regalava. Stavo per prendermene uno a caso ma la segretaria mi fece capire che a me spettava quello da un chilo, mentre agli operai toccava quello da 700 grammi. Quando mi resi conto di questa cosa, rifiutai tutto: “se panettone deve essere, deve essere per tutti uguale” dissi. E me ne tornai a casa.

La sera sentì suonare il campanello: era il titolare. “Hi ragione-mi disse- ho già dato l’ordine di acquistare una confezione uguale per tutti” . Un piccolo gestomadigrande valore simbolico.

Così un’altra volta: dovevamo fare un ordinativo di dieci mila paia di tacchi e non sapevamo come fare perché già eravamo saturi con il lavoro. Allora la sera, cinque minuti prima della campanella, chiesi agli operai se tutti erano disposti a lavorare qualche ora in più altrimenti l’ordine non lo prendevamo. Tutti dissero sì, accettando di lavorare anche il sabato mattina. Ma tutti d’accordo.

Ci vuole condivisione. Con i soprusi e le vessazioni non si ottiene nulla di duraturo.

E’ per episodi così che, quando sono venuto via, anche quelli che erano un pò più duri in fabbrica, li hi visti con le lacrime all’occhio.

Con questo non voglio dire che io sono stato un santo. No. E’ che ho sempre cercato di lavorare per la giustizia sociale, pur all’interno di un sistema chiaramente capitalista.

E non era impossibile. Non è stato impossibile.

Lo sviluppo economico ha un senso quando porta ad un miglioramento delle condizioni di vita per tutti. Altrimenti si riduce a mero sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Lei dice che il voto oggi è lo strumento più importante per difendere la democrazia ma per un giovane che credibilità ha oggi la politica, visto che non sembra essere più in grado di garantire proprio quell’equilibrio tra sviluppo e bisogni collettivi ?

E’ questo che manca. Manca la credibilità. Nei politici ed anche nelle istituzioni, colpevoli esse stesse di non aver garantito quel processo di eliminazione delle disuguaglianze che tutti si aspettavano. Anche noi non credevamo nelle istituzioni fasciste, però credevamo fermamente nella politica. In una politica che cambiasse l’ordine delle cose. Personalmente ho cominciato a masticare un pò di politica solo una volta arrivato in montagna. Due o tre volte la settimana ci riunivamo e si discuteva. Innanzitutto però si ascoltavano le testimonianze di quelli che erano stati in galera o al confino, chi cinque, chi dieci, chi anche quindici anni…

La politica di cui discutevamo in quelle ore drammatiche ed insieme bellissime, straordinarie,era uno strumento per cambiare il mondo. Per renderlo più giusto.

Quando tornammo a casa, dopo la liberazione di Firenze, molti di noi si arruolarono nel nuovo esercito italiano. Io tornai a lavorare, anche per aiutare la mia famiglia che era allo stremo. Altri cominciarono a lavorare nelle case del popolo, facendo politica dal basso, come si direbbe oggi.

Mi iscrissi al Pci nel settembre del 1944. Sono sempre stato militante. Poi anche lì abbiamo conosciuto delle grosse delusioni…

Ma la fiducia nella politica non può, non deve, venir meno.

Io spero che i giovani sappiano trovare dentro di loro abbiano la forza di lottare sempre, proprio per difendere quei valori che animarono la lotta partigiana nella Resistenza e che oggi, purtroppo, si stanno perdendo. Mi auguro che continuino a lottare per migliorare le condizioni di vita di tutti.

E poi bisogna sconfiggere l’egoismo: oggi è il male peggiore. Quello che ci fa vedere gli altri come avversari se non come nemici. In questo ritengo che ci siano delle grandissime responsabilità dei genitori. Anche della nostra generazione. Perché le scelte politiche sono individuali, ma si può educare in un certo modo: alla fratellanza, alla solidarietà.

Oggi il Fascismo s’è vestito in doppio petto. Forse non ha più il manganello e l’olio di ricino ma ha la tendenza ha ripristinare una certa dittatura. E’ bene che di questa cosa i giovani, e non solo loro, si rendano conto al più presto.

Noi da ragazzi non potevamo stare insieme più di tre, altrimenti eravamo accusati di ‘sedizione’. Non potevamo vivere liberamente perché eravamo sempre controllati, irreggimentati nelle maglie del regime. e poi la violenza, le spedizioni punitive, il manganello, l’olio di ricino, le case degli antifascisti bruciate, la galera.

Questo non c’è più pero’?

Forse non il quella misura. M a quanto mi risulta che i fascisti, anche quelli che proprio si definiscono tali, abbiano ricominciato a distruggere vetrine, come facevano allora: a Roma, Genova, Bologna.

Hanno ripreso a danneggiare le sedi dell’ANPI. A disegnare svastiche sui muri.

State attenti, si comincia così. Anche allora, con il fascismo, tutto cominciò in maniera quasi sommessa .Piccoli episodi,un giorno uno, poi un altro. E poi, piano piano, poi abbiamo visto dove siamo andati a finire.

Io dico: sono gli inizi di un nuovo fascismo. Credete che si fermino qui ?

 

Perché la chiamarono Saturno?

Quando arrivai in montagna, sentì che tutti si chiamavano Sugo, Balena …. Tutti avevano un soprannome. Siccome a me piaceva guardare il cielo, le stelle, dissi “chiamatemi Marte”, ma ce n’era già uno. E così mi chiamarono Saturno.

 

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